 
Caccuri 11/08/2011
Oltre un centinaio di persone ha seguito con molta
attenzione, giovedì sera, nella stupenda cornice della Chiesa della
Riforma, i lavori del convegno "La lingua dei padri, un
patrimonio da conservare e tramandare" organizzato dalla Pro
Loco e fortemente voluto da Adolfo Barone, imprenditore caccurese
che vive nel comasco, cultore appassionato dell'idioma del paese
natio e dei dialetti della Calabria in genere. Particolarmente
apprezzata la dottissima disquisizione del prof. Francesco Cosco,
uno dei più seri ed accreditati studiosi della storia e delle
lingue locali, com'egli ha più volte definito quelli che
comunemente si usa considerare dialetti. Cosco ha rifatto la storia
dell'espansione monastica greco - bizantina nelle nostre zone
interne e degli insediamenti basiliani lungo la valle del Neto. Da
qui la nascita di numerosi cenobi italo greci che sostituirono il
vecchio assetto territoriale romano e brezio e la diffusione di
toponimi greco - bizantini ad opera dei monaci italo - greci e di
numerosi vocaboli che entrarono a far parte della lingua locale. Ma
il nostro dialetto o, meglio, la nostra lingua locale come l'ha più
volte definita il professore Cosco, subì anche la
"contaminazione" da parte di decine lingue dei vari
conquistatori, dai Normanni agli Angioni, dagli Arabi agli
Aragonesi, ai Longobardi, una tesi sostenuta anche dal web master di
questo sito nel corso del suoi intervento. Il presidente Porcelli e
Adolfo Barone hanno illustrato con chiarezza le motivazioni e gli
obiettivi che si poneva il convegno, convergendo sull'opportunità
di dar seguito a questa prima iniziative con altre tendenti a
riscoprire e tramandare la nostra lingua al fine di preservare dalla
dispersione un notevole patrimonio culturale, anche attraverso forme
di collaborazione con la scuola incassando l'immediata
disponibilità del dirigente dell'Istituto comprensivo "C.
Simonetta" presente in sala ed autore di un pregevole
intervento, e l'istituzione di una sorta di premio letterario per
eventuali autori dialettali o anche favorendo lo sviluppo di un
teatro dialettale fra l'altro già attivo in paese, soprattutto ad
opera di Anna Calfa e della professoressa Maria Rugiero. Proprio
Anna Calfa, dopo un suo intervento nel quale ha ricordato quello che
si sta facendo in questa direzione, ha letto, fra un intervento e
l'altro dei vari relatori, proverbi, filastrocche, aforismi che
costituiscono una parte importante della "letteratura
caccurese" e una poesia di Peppino Marino. Apprezzati anche gli
interventi del sindaco Marianna Caligiuri, del presidente della
Fondazione Terzo Millennio, Luigi Ventura e di Franco Amariti,
presidente dell'associazione culturale Arco del Murorotto.
Importanti e stimolanti anche i contributi dei cittadini presenti
che hanno consentito al professore Cosco di offrirci altri spunti di
riflessione sul nostro dialetto e su quello degli altri paesi de
Crotonese e della Calabria.
Interventi e
relazioni
Lingua e dialetto
di Giuseppe
Marino
Prima
di addentrami nelle tematiche che mi sono riproposto di trattare
vorrei sgombrare il campo da ogni eventuale equivoco sullo scopo di
questo convegno che, ritengo, non
è e non vuole essere
assolutamente in polemica con l’uso della lingua italiana, né
intende proporre di utilizzare il dialetto in sostituzione della
lingua nazionale. Una cosa del genere sarebbe sciocca, puerile e
velleitaria.
Purtroppo da qualche tempo, in alcune zone d’Italia
è in atto una campagna strumentale per fini politici che vorrebbe
promuovere, anzi, addirittura imporre per legge l’uso del dialetto
da contrapporre alla lingua dell’Italia unita e questo rende più
difficile parlare di promozione del dialetto in quanto si potrebbe
sospettare una voglia di contrapposizione. . Per quanto mi riguarda
l’italiano è la sola lingua degli Italiani, il solo strumento di
identificazione culturale della comunità italiana, una lingua che
io ritengo la più bella, la più ricca, la più articolata del
mondo, la lingua di Dante, di Petrarca, di Leopardi, di Manzoni, di
Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di
Pratolini, di Pavese, di Eco e di tanti altri grandi maestri della
nostra letteratura. Noi amiamo profondamente il nostro dialetto, la
nostra lingua materna e pensiamo che col dialetto si possano fare
anche cose sublimi, ma non si ci possono scrivere grandi romanzi,
non ci si possono scrivere i codici e non ci si possono scambiare
informazioni scientifiche che è poi il concetto espresso
magistralmente da Benigni nel corso della serata sanremese dedicata
all’Unità d’Italia.
Detto questo qualcuno potrebbe obiettare: allora che
senso ha proporre un convegno sul dialetto se non potrà mai essere
la nostra lingua ufficiale? Intanto il dialetto, come l’italiano, è
lo strumento che consente di individuare l’identità culturale di
una comunità anche ristretta. Due persone che non si conoscono e
che si incontrano magari a migliaia di chilometri dal loro paese si
riconoscono immediatamente nel momento che uno dei due usa il
dialetto comune. Se in Amazzonia o in Papuasia sento pronunciare
correttamente la parola vusjulu
o josjaru ho la matematica certezza che la persona che mi sta
davanti è un caccurese. Conoscere, approfondire, trasmettere il
nostro dialetto, perciò significa innaffiare costantemente le
nostre radici culturali per far si che non si inaridiscano facendo
seccare la nostra identità di comunità locale che ha un patrimonio
di storia, di esperienze comuni, di
usi, costumi, valori custoditi, un comune vissuto plurisecolare che
abbiamo il dovere di salvaguardare. Ma il dialetto è anche
ricchezza espressiva, musicalità, formidabile strumento di
esternazione dei nostri sentimenti. I dialetti, tutti i dialetti
hanno avuto un ruolo notevolissimo nella produzione di grandi
capolavori letterari. Provate a pensare ad una storia della
letteratura italiana senza il teatro di Eduardo, senza i sonetti del
Belli, senza le opere di Goldoni, senza le poesie di Trilussa, senza
le ballate di Butitta, senza le bellissime pagine in siciliano di un
grande maestro come Andrea Camilleri; provate ad immaginare O sole
mio o Io te vurria
vasà in italiano. E allora, se il dialetto è così bello, così
espressivo, così poetico, perché dovremo buttarlo a mare e tenerci
solo l’italiano che pure è, lo ripeto ancora,
la lingua più bella del mondo? Perché non custodire
gelosamente entrambe queste ricchezze?
Questo è lo spirito che ci ha guidati nell’organizzazione
di questo convegno, questi sono gli obiettivi che ci proponiamo:
conoscere meglio, conservare e tramandare la lingua dei nostri padri
nei modi e nelle forme che scaturiranno da questo convegno e dalle
iniziative che lo seguiranno.
Dopo questa
doverosa premessa cercherò di entrare nel tema e di puntualizzare
alcune cose che mi stanno a cuore.
Ho già
detto che il dialetto è uno strumento che consente di individuare e
ricostruire l’identità culturale di una comunità. Ciò trova
fondamento negli insegnamenti di un glottologo come
Benvenuto Terracini secondo il quale “il fine della
linguistica è quello di fare la storia della cultura.” Studiare
scientificamente il nostro dialetto significa, perciò, scoprire le
nostre radici culturali, capire che la nostra cultura
è il frutto dell’incontro di centinaia di popoli che hanno
percorso le nostre contrade, che il nostro idioma è il prodotto di
tutta una serie di contaminazioni linguistiche,
di intensi scambi culturali con i popoli che ci hanno via,
via conquistati o dell’introduzione
nel nostro dialetto di sostantivi importati dai nostri emigrati
dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dal Brasile o da altri luoghi
della terra.
Il nostro
dialetto pullula di sostantivi o aggettivi derivati da altre lingue
straniere e non solo dal latino o dal greco. Cito per brevità
qualche esempio solo qualche esempio: sparagnare
( risparmiare,
conservare per tempi più grami)
, dal tedesco sparen, surice
(topo), dal
francese souris, tavarca
(testiera del
letto) , dall’arabo
trabak, nnocca
(fiocco), dal
longobardo knocca, zimma
(ricovero,
porcile), dal tedesco zimmer, serra
(collina) dallo spagnolo sierra, buatta
(scatola di
latta) dal francese boite, zaccanu
(recinto per le bestie) dall’arabo sakan, scifu
(truogolo)
dal greco skifos, zimmaru
(caprone) dal greco ximaros.
La presenza di questi
sostantivi nel nostro
dialetto ci dice che come calabresi abbiamo avuto a che fare, per
tutta una serie di vicende storiche, con francesi, spagnoli, arabi,
normanni, longobardi, greci dai quali abbiamo mutuato tutti questi
termini, ma la presenza di altri termini quale
bissinise,
dall’americano businnese o bossu
(boss, capo)
o mattu
(yerba mate)
ci raccontano di una emigrazione in terre lontane e del rientro di
quelli che erano troppo attaccati alla loro terra o ai quali la
fortuna non ha arriso e che hanno introdotto nel loro idioma parole
di popoli di altri mondi. .
Mi fermo qui per non annoiare il pubblico presente, ma
chi è interessato ad approfondire la materia può magari consultare
le pagine del mio sito, L’Isola Amena, dedicate al dizionario del
dialetto caccurese o il pregevole volume su Cerenzia del compianto
dottor Giuseppe Aragona o le opere di altri nostri illustri
conterranei.
Molto probabilmente fra qualche decennio il nostro
dialetto sarà infarcito anche di termini di origine rumena,
polacca, bulgara visto che da tempo ospitiamo cittadini di queste
nazionalità che vivono e lavorano a Caccuri
Attraverso
il dialetto, dunque, possiamo capire meglio chi siamo e da dove
veniamo e, a saperlo leggere bene, ci fornisce una quantità
impressionante di informazioni. Prendiamo, ad esempio, gli sfottò
tipici tra paesi vicini limitandoci a tre comuni, oltre naturalmente
a Caccuri stessa, che confinano con il nostro territorio:
riferendoci ai sangiovannesi li abbiamo sempre indicati come piciari,
i cerentinesi chjiapparari,
gli abitanti di Castelsilano vinna
cinnara, mentre i cacuresi venivano definiti, dagli altri, cagnusi.
Soffermiamoci sugli epiteti affibbiati a sangiovannesi e
castelsilanesi. I sangiovannesi venivano chiamati piciari in
quanto produttori e venditori di pece, mentre i castelsilanesi erano
chiamati vinna cinnara in quanto avevano aguzzato l’ingegno e
vendevano la cenere che raccoglievano nei loro focolari per essere
utilizzata per il bucato col ranno come si usava una volta. Questi
epiteti che volevano essere semplicemente degli sfottò, ci danno un
sacco di informazioni. Ci fanno sapere, ad esempio, che anticamente
San Giovanni in Fiore era circondata da boschi di pino dai quali si
ricavava la pece e che questa pece era una risorsa economica per
quel popolo che, abitando a oltre 1000 metri di altitudine, non
aveva la possibilità di sviluppare un’agricoltura produttiva
tipica delle zone più a valle. I sangiovannesi non potevano
utilizzare la cenere da loro prodotta in quanto non adatta al bucato
col ranno e allora la compravano dai castelsilanesi essendo
Castelsilano circondata da boschi di querce, lecci, elci che
fornivano una legna pregiata ed una cenere di qualità. Ed ecco come
due semplici aggettivi ci raccontano una interessante storia di
economia ed una di botanica.
E ancora i cerentinesi erano chiamati chjiapparari
perché nel territorio di questa cittadina cresceva spontanea la
piata dei capperi che oggi potrebbe forse costituire una risorsa
sulla quale puntare per creare un po’ di economia nella nostra
zona. I caccuresi, infine, erano chiamati cagnusi, cioè portatori
di gozzo tiroideo, cosa in parte vera, perché avvezzi a consumare
salgemma, ovvero io sale che veniva estratto di nascosto dalle
saline della zona controllate meticolosamente dalla guardia di
finanza e che, essendo privo di iodio, un alogeno indispensabile
alla tiroide, finiva per favorire l’insorgenza del gozzo. Questa
patologia, ovviamente, provocava i sarcasmi dei cerentinesi.
Racconta il citato dottor Aragona che i suoi compaesani sfottevano i
caccuresi attribuendo alle ragazze caccuresi in cerca di marito il
merito di aver composto questa canzoncina: “Santu Roccu mio
benigno, tu lu sai pecchì ‘ce vegnu, tanta brutta nun ce signu,
‘u pocu ‘e ru cagnu puru ‘u tegnu.”
Ora consentitemi di leggervi una poesia del poeta
Umberto Lafortuna che, oltre a darci un esempio di uso sapiente del
dialetto, ci fornice una vasta mole di notizie sulla Caccuri di un
tempo e sulla festività di San Rocco.
Parmarinu
Mustazzi
janchi, longhi, russu e faccia
A pippa sempre ‘mmucca, Parmarinu
Era amicu du vini
E le piacia la caccia.
Era maritu de la Sparadesta
Ch'a menz'agustu o puru pe’ la festa
De Santu Roccu vinnia’ pupicchie
Cu le manuzze ‘nfrancu e senza aricchie.
Pupe cull'ovu, ‘e zuccaru ‘ncrispate
e d'amurella russe culurate,
Mo le pupicchie nun se fannu cchiù .......
Duv'è la festa, mu sa dire tu?......
‘U Santu è sempre chillu ed ha bicinu
‘U stessu cane; ma nun c'è Parmarinu^
‘Un c'è la mugliere, ‘a Sparadesta
Ed è canciata ‘a festa.
Spero di aver chiarito cosa intendo per riscoperta dell’identità
culturale di una piccola comunità e di aver contribuito, almeno un
po’, a stimolare l’amore per la nostra lingua e l’orgoglio di
fruire di questo tesoro che sarebbe un peccato non custodire
gelosamente e non tramandare
ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Prima di chiudere voglio sottoporre agli amici presenti
alcuni spunti di riflessione che secondo me andrebbero approfonditi
attraverso una ricerca seria. I dialetti variano spesso da paese a
paese, a volte anche in modo consistente. Non solo cambia l’accento,
il modo di pronunciare la stessa parola, ma cambiano anche alcuni
sostantivi, molti aggettivi, i modi di dire. Niente di strano se
ciò si verifica tra paesi lontani l’uno dall’atro, ma spesso
anche tra quelli vicinissimi o, addirittura, tra il capoluogo e la
frazione di uno stesso paese. Tra i dialetti di Caccuri e Cerenzia,
ad esempio, o tra quelli di Caccuri e di San Giovanni o di Savelli,
perfino tra quello di Caccuri e di Santa Rania notiamo spesso
differenze più o meno marcate. Viceversa, si verifica che in paesi
più lontani si parli l’identico dialetto o che l’accento, la
pronuncia dei vocaboli siano
identici. A me, ad
esempio, è capitato di sentire parlare il caccurese corrente e
correttamente a Luzzi e anche a Umbriatico
che sono paesi relativamente distanti da Caccuri, cosa che
non mi capita se vado a Cerenzia o a Castelsilano paesi molto più
vicini.
Sarebbe cercare di scoprirne i motivi attraverso uno
studio storico – linguistico, magari materia di una tesi di
laurea. Sono sicuro che verrebbero alla luce cose molto
interessanti.
Prima
di chiudere voglio fare un piccolo omaggio a Francesco Cosco,
oriundo caccurese. Il bisnonno di Francesco, Ferdinando Belcastro,
era un caccurese che poi si trasferì a Petilia Policastro. Era
fratello di Francesco Belcastro detto Ciccillo, mio bisnonno,
quindi i parenti caccuresi di Francesco, oltre a me, sonoi i
"Ciccilli", ovvero i discendenti di "Ciccillo
Belcastro": A Ciccillo il maestro Lafortuna dedicò
un'altra delle sue poesie in vernacolo che ora vi leggerò e,
attraverso la quale, ho potuto conoscere in profondità il mio
antenato.
Ciccilllu
(Francesco Belcastro)
Se
chiamava Ciccillu
E avia ‘nu cardillu
Cecatu e cantature;
‘U tenia cu’ amure
Ed a bontempu, all’arba se ‘mpesava
Culla caggia alle manu e carduliava.
Facìa l’usceri e puru ‘u jettabannu
Ed alle feste quannu
Venìanu zinzulari e furesteri
Canciava tutti quanti ‘ssi misteri
E, cullu copparellu
Supra ‘nu bancarellu
‘mmenzu a chiazza jocava
E alli citrulli i sordi carduliava.
Si ‘ntra Simana Santa se facìa
La Passione e se volìa
‘Nu Jura bonu chissà era Ciccillu
Ca nullu ‘u sapia fare meglio ‘e illu.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Relazione
di Francesco
Cosco
Ringrazio per
l'invito tutti voi e innanzi tutto Peppino Marino. Sono venuto
volentieri a Caccuri
e per due motivi. In questo paese io
ho le mie radici, il mio bisavolo era un certo Ferdinando Belcastro,
trasferitosi a Policastro a metà '800. Poi Caccuri mi è cara per
la sua storia, antichissima. Tre sono gli elementi storici che sono
stati oggetti di miei studi: II monastero di S. Maria dei Tre
Fanciulli, impropriamente oggi nell'area comunale di San Giovanni in
Fiore, se consideriamo che fino al 1217 era in territorio di
Caccuri. A quei
tempi i Florensi di Acquaviva ed il vescovo di Catanzaro fecero lo
strappo. Vi è poi il Vurdoi con gli insediamenti rupestri su cui ho
scritto
alcuni testi riportati in un mio libro. Caccuri è poi paese di
villaggi rupestri: io stimo che sia in Calabria al secondo posto dopo
Casabona. Ho scritto a riguardo un articolo titolato Le grotte
gemelle.
Ma il più importante dei miei studi è la cripta di Timpa dei
Santi, di cui desidero parlare successivamente.
Ma
ora parliamo dei nostri dialetti con preghiera di volermi porre
tutti le domande che vorrete.
Io
mi chiamo Francesco Cosco e faccio parte del comitato di
dialettologia del crotonese, ma non il presidente, carica che ho
ricoperto in passato.
Riferisco subito che i nostri dialetti sono etnolessemi,
cioè vere e proprie lingue, frutto di una stratificazione delle
lingue di tutti i popoli che nelle nostre contrade hanno dimorato.
Per prima i Brezi che parlavano l'osco, poi i Latini, gli
Arabi, i Longobardi, i Tedeschi di Federico II, i Normanni
e gli Angioini col francese, gli Aragonesi con lo spagnolo.
Ma la vera sorpresa è la presenza nel nostro linguaggio di un
vasto sostrato di termini dialettali derivanti dal
greco-bizantino. Se fosse presente il Rolhfs mi maledirebbe
perché sostiene che ogni elemento greco appartiene all'ellenismo
della Magna Grecia). E stasera proprio su questo punto voglio
un po' soffermarmi, proprio perché viene investita molto da vicino
la cittadina di Caccuri sia linguisticamente che storicamente.
Opera
di dissodamento e di colonizzazione del territorio. Lingua
greca
Dopo
la riaffermazione del potere bizantino e la fondazione della
metropolia severinate si formeranno numerosi monasteri greci
(F) Tra gli eremi potremmo annoverare quello con annessa chiesetta
sepolcrale di S. Maria della Scala in Belvedere Spinello. Ma più
importante la cripta di TIMPA DEI SANTI (843-962 studi cosco) (F)
I cenobi italo greci da annoverare nell'ambito del
bacino del Neto sono (F): S.
Maria dei Tre Fanciulli
(F), Santa Marina, Calabro Maria di Altilia, S. Maria di
Cabria, Abbate
Marco, San
Michele Arcangelo, S. Angelo Militino in territorio di Campana; di
altri minuscoli eremi in Sila parla il Trincherà nel suo Sillabus
G. M. come sul rio Scannaiudei e in zona Campo di Manna.
Attorno ai cenobi delle comunità greco eremitiche, che
sorgono qua e là nella valle del Neto, comincia l'opera di
dissodamento e di colonizzazione del territorio. E' un momento
questo molto importante che io ho notato anche in Policastro ed in
Casabona ed è stato notato pure da G.B. Maone nei tenitori a valle
di Savelli. Io l'ho notato pure in Caccuri. Si nota in effetti
una diffusa presenza di toponimi greco - bizantini e la scomparsa di
quelli risalenti all'età classica; ciò indica come vasto sia stato
l'intervento di colonizzazione dei monasteri greci segno che il
monachesimo orientale ha sostituito un vecchio assetto territoriale
romano e brezio.
Un fatto storicamente molto serio questa colonizzazione
bizantina di cui però si parla molto poco per cui desidero
rievocare molti toponimi greci perché tutti abbiano contezza di
questa capillare trasformazione che da noi dovrebbe essere studiata
anche a scuola: per Casabona: Cipòdaru,
Arvaneto, Spartizzo, Calamia, Rinuso, Patìa,
Fraga, Galìci; per
Policastro Migliarite, Cugni,
Vignale, Riviòto, Caritello, Granaro, Carolino,
Cerratullo, 'Nsarco.
Per Savelli (Maone): Pardice, Caria,
disuria, Mesodera, Piperia, Gonia, Pàtamo, Grilléa, Camastrea,
Spartia, Calamìa, Polligrone, Strangirofalo.
Per Caccuri: Vurdoi
che in greco significa i muli,
ma poi Neto, Patia, e lo storico Calosuber.
Ma non solo i toponimi indicano questa
colonizzazione greco - bizantina, soprattutto monastica, ma anche
migliaia di termine: ne enuncio qualcuno:
caccavu,
jìtimu,
cremagghiera,
cicimmò,
limma,
pruptu,
vruscia,
cerasu,
timugna,
ncrinata,
grasta,
calascinu,
vruca,
quagghju,
catoia,
calantreddra,
Capasa.
Cambiamo argomento
Non c'è territorio che ricalca dialettalmente
quella Calabria detta mediana di cui parlano il Rolfs, il Trumper ed
il Falcone quanto la zona di Caccuri e Cerenzia. Qui si incontra il
linguaggio e la fonetica della Calabria settentrionale, qui vi è la
a turbata, ma non vi sono le cacuminali. Per un verso è da
accomunarla all'area linguistica di S. Giovanni in fiore, per altri
al Crotonese. come per esempio una certa mancanza di dittongazioni.
Una isoglossa ... s'insinua lungo il corso del Neto ed abbraccia a
sorpresa gli abitati di Caccuri e Cerenzia; e li priva delle
metafonesi
Pensate che il termine bello è detto beddru
a Crotone, bieddru
a Curro, biaddru
a Petilia, biellu
a S. Giovanni, biallu
a Savelli.
Pensate che il termine bonu:
a Crotone è detto bonu, senza dittongo, buonu
a Cutro e San Giovanni in Fiore, buanu
a Petilia, ma anche buenu
a Mesoraca e Cotronei.
Desidero infine, dopo un compendio di notizie di
studio lasciarvi la bocca dolce e recitarvi una poesia in dialetto
per farvi notare quanto la nostra lingua storica sia espressiva
riguardo all'italiano e la traggo da quella corrente
letteraria ottocentesca che io stimo la Primavera stilnovista
in Calabria in cui la donna era quella che conduceva i giochi dei
sentimenti amorosi condotti con le armi proprie dell'amore: tipo i
"languidi sguardi", e chi vince? Lei! Titolo la battaglia
degli occhi:
Ccu
l’uocchi nu1 salutu m'hai mannatu,
ccu l’uocchi t'haiu dittu: bon venutu!
Ccu l’uocchi m'hai minatu 'na lanzata,
ccu l’uocchi t'haiu rispostu: m'ha ferutu!
Ccu l’uocchi tu nu 'nguientu m'hai mannatu, ccu l’uocchi th'aiu
dittu: m'ha culutuj
Uocchi ccu d'uocchi se sunnu guerriati:
Viva l'uocchiuzzi mia c'hannu vinciutu!!!

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